#FOCUSGERMANIA. HEIMAT, ANALISI DI UN FENOMENO CINEMATOGRAFICO

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Quasi un serial cinematografico.
Come “Dallas”? Come “Dynasty”? Come quelli.
Ma con contenuti, tematiche e problemi diversi.
(Beniamino Placido – Repubblica, 29-7-1993)

a cura di Marco Villa

 

Dire che le serie tv sono il nuovo cinema è una frase tanto ripetuta negli ultimi anni da essere diventata quasi un luogo comune. Non per questo meno vera, perché gli investimenti dei grandi network mondiali sono aumentati in modo esponenziale, in una sfida al rialzo con le piattaforme di streaming e i grandi colossi dell’online. Un mondo che fino a dieci anni fa era difficile da immaginare, al punto che il passaggio di attori e registi tra tv e cinema era un fatto raro e – soprattutto – a senso unico: tra chi spiccava sul piccolo schermo, qualcuno riusciva a fare il salto verso il cinema, ma solo interpreti in là con gli anni (e con qualche mutuo da estinguere) finivano per lasciare le pellicole per la televisione.

 

Mondi separati, pressoché impermeabili, che di colpo diventano tutt’uno: nell’arco di pochi anni, le grandi narrazioni prendono possesso della tv e la fanno entrare in una nuova era, quella in cui investimenti e qualità possono competere con i film più importanti. Tutto questo, però, era già avvenuto trent’anni prima in Germania, con un’opera monumentale in cui ambizione e (apparente) follia procedevano a braccetto. Quell’opera si chiama Heimat ed è un pezzo unico nella storia dell’audiovisivo.

 

Heimat appare per la prima volta su uno schermo durante il Festival di Venezia del 1984 ed è subito evidente la sua natura aliena: presentato nel tempio dell’arte cinematografica, è un prodotto lungo oltre 900 minuti, diviso in undici parti di durata variabile, che oscillano tra i 60 minuti e le due ore e venti e che alternano bianco e nero al colore. La storia è quella di un immaginario paese della provincia tedesca e delle persone che lo abitano: una vicenda che inizia nel 1919, con il ritorno dal fronte di Paul, il più giovane della famiglia Simon. È proprio questa famiglia il nucleo scelto per rappresentare un’intera nazione, la Germania, nel lungo periodo che va dalla fine della Prima guerra mondiale all’inizio degli anni ‘80, passando per il periodo del Nazismo. Del resto, il titolo stesso rimanda a un concetto che è intraducibile in italiano, ma che può essere reso come patria degli affetti, come il luogo a cui non si può fare a meno di pensare come “casa”.

 

Quello di Heimat è un progetto audace, portato avanti quasi interamente da una sola persona: Edgar Reitz, esponente di spicco del Nuovo Cinema Tedesco, che firma la regia, ma anche la sceneggiatura (in coppia con Peter Steinbach). Prodotto dalla televisione tedesca, ma lontanissimo per stile e tono da qualsiasi titolo televisivo visto fino a quel momento. Caratterizzato da una ricerca linguistica e visiva tipicamente cinematografiche, ma senza paragoni nella storia del cinema. Un cortocircuito lungo 15 ore, che diventa un cult istantaneo, ancora prima dell’esistenza di questo termine.

 

Heimat è talmente ambizioso da non poter esaurire il proprio percorso con questo racconto, così, dopo il successo veneziano, Reitz si mette al lavoro per dare un seguito alla propria opera. Impiega esattamente dieci anni e nel 1992 è di nuovo a Venezia per Die Zweite Heimat, letteralmente “la seconda Heimat”. Se nel primo ciclo si raccontava la storia di una famiglia, ovvero dei legami in cui ci si trova inseriti per nascita, in questo caso in 26 ore e tredici episodi si raccontano i legami che vengono scelti: quelli della gioventù e del periodo universitario. Protagonista è sempre un Simon, ma questa volta è Hermann, che attraversa gli anni ‘60 tra sperimentazioni musicali, artistiche e amorose. Uno spaccato più ristretto a livello temporale, ma più profondo per quanto riguarda la psicologia dei personaggi e la ricerca linguistica dello stesso Reitz.

 

Due film non fanno però una saga: serve il terzo, che puntualmente arriva. È il 2004 e Reitz riporta gli spettatori a Schabbach, il paesino del primo Heimat, per altre undici ore di storia. Protagonista è sempre Hermann, la cui vita viene seguita dal crollo del Muro di Berlino fino al capodanno del 2000.

 

In totale, Heimat copre 52 ore di visione: oltre due giorni, cui si aggiungono gli extra rappresentati dal film di montaggio Heimat – Fragmente e da Die Andere Heimat, che va ancora più indietro nel tempo rispetto al primo ciclo. Un’opera gigantesca, in cui perdersi seguendo tutte le linee narrative che affiorano, spariscono e poi ricompaiono all’improvviso, andando a disegnare personaggi capaci di rimanere per sempre nella memoria degli spettatori. Come accade oggi con le grandi serie tv, ma con trent’anni di anticipo.